Scenografie e realizzazione: Rosa Lorusso e Vincenzo Mascoli; costumi: Angela Varvara; aiuto regia: Lucrezia Rossetti. Scambi di persona, incastri e intrighi fino alla lieta conclusione. E’ la commedia nella sua forma più pura che in Wilde lascia tuttavia, dopo che anche l’ultimo applauso si è spento, l’immagine di una risata cristallizzata, simile a una smorfia. Sarà per la straordinaria capacità dei grandi autori di essere sempre contemporanei e suscitare una critica morale che non perde valore se rivolta alla società vittoriana o a quella postmoderna dove i profili più carismatici sono sempre quelli che meglio sanno manipolare lingua e parole. Un allestimento che sceglie le sonorità jazz per coniugare l’attualità dei temi alla rappresentazione dell’alta società borghese con costumi e scenografie ispirati agli anni Cinquanta e che sembrano prendere vita dai quadri di Fontana o De Chirico in cui il pavimento di legno rimanda al palcoscenico popolato tuttavia non di figure umane, ma di manichini e ombre. 

Note del curatore dell’adattamento:

{affiliatetextads 1,,_plugin}“La scrittura di Oscar Wilde è ricca di nonsense, equivoci, ironia e giochi di parole. Il nome Earnest, tradotto in italiano corrisponderebbe al nome Franco, sinonimo di onesto, sincero, ed è proprio questo a rendere arguta la commedia che si fonda sulla contraddizione tra il falso nome con cui sono conosciuti i due protagonisti, Earnest, e la loro vera natura di abitudinari menzogneri

Cecily e Gwendolyn non li avrebbero mai sposati se non si fossero chiamati così; Earnest è un nome che le fa vibrare, fremere di gioia e soddisfa le loro fantasticherie adolescenziali, durante le quali, favoleggiano di un uomo che le ami, ma che soprattutto corrisponda a quel nome, ispiratore di cieca fiducia. Un divertente siparietto in cui le donne risultano superficiali, vendicative, passionali, ma anche volubili mentre gli uomini bugiardi, un po’ vittime un po’ manipolatori. Un quadretto che attacca con stile le convenzioni del suo tempo, la stupidità delle etichette sociali, la comica ipocrisia dell’alta società, la vacuità che si annida nel romanticismo infantile di alcune adolescenti”. (Antonio Bellino)