La suprema corte chiarisce che è possibile l’accertamento induttivo per Iva e Irap nei confronti dei datori di lavoro che sfruttano il lavoro nero applicando un principio logico elementare: corrispondere lo stipendio non contabilizzato più che essere assimilabile ad un costo è il segnale di una maggior volume d’affari e quindi di maggiore produttività.

{affiliatetextads 1,,_plugin}Nel caso di specie, la sezione tributaria ha rigettato il ricorso di un’artigiana pugliese proprietaria di una manifattura di biancheria, che aveva pagato in nero un dipendente, quindi, senza contabilizzarlo.

A seguito di tanto, l’agenzia delle entrate aveva effettuato un accertamento per le maggiori Iva, Irap e Irpef dovute. In prima istanza la commissione provinciale tributaria cui si era rivolta aveva annullato l’atto impositivo. Ma in appello innanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia la situazione era stata già ribaltata e confermato l’atto di accertamento.

La contribuente ha allora proposto ricorso per cassazione sostenendo che comunque il lavoratore in nero costituiva un costo deducibile. Gli ermellini hanno respinto integralmente il gravame, sostenendo che non solo il lavoratore non dichiarato non è un costo deducibile ma che tale circostanza fa senz’altro presumere un maggior reddito legato a un maggiore volume d’affari.

Nella motivazione è possibile, infatti, leggere che: “Il divieto di doppia presunzione attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice e non può ritenersi, invece, violato nel caso, quale quello di specie, in cui da un fatto noto (presenza di un dipendente non regolarmente assunto per il quale la stessa contribuente ha ammesso la corresponsione di una retribuzione non contabilizzata) si risale – peraltro in funzione di una presunzione legale, seppur relativa- a un fatto ignorato (maggiore redditività di impresa e non semplicemente maggior costi per retribuzioni, come ha prospettato in memoria la ricorrente)”.