E l’asse del Sud di cui si parla, ce la farà a ribaltare quanto sta accadendo sul riparto, a rilanciare gli investimenti e a cambiare questo federalismo? “Se i miei colleghi non dovessero tener conto di tutti questi fattori, non potrei che trarre la conclusione della loro complicità nella più grande rapina che la storia italiana abbia mai visto a danno dei cittadini delle regioni meridionali”.

Presidente Vendola, per molti osservatori, ne ha parlato di recente anche l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, la sanità meridionale è oggi la criticità più evidente nel processo, ancora non compiuto, di unità della Nazione. È d’accordo con questa valutazione?

Non c’è dubbio. Le criticità del sistema sanitario del Mezzogiorno sono un indicatore rilevante degli squilibri che rendono ancora inattuata l’unificazione del Paese di cui siamo prossimi a celebrare i 150 anni. Il razionamento delle risorse che registriamo nel circuito del welfare, la scarsa infrastrutturazione sociale e i buchi nei sistemi sanitari in parti rilevanti del Sud Italia, ci dicono che qui c’è un banco di prova della tenuta del Paese. E qual è la risposta prevalente a tutto questo? La criminalizzazione dell’organizzazione sanitaria del meridione.

{affiliatetextads 1,,_plugin}Il Sud diventa metafora di un racconto caricaturale. Non si vedono le eccellenze che invece ci sono, le innovazioni che si sono realizzate e in questo cono d’ombra veniamo risucchiati. Al contrario, il Nord viene rappresentato secondo gli schemi dell’efficientismo lombardo, con il paradosso che gli episodi più sconcertanti di vera malasanità si registrano proprio al Nord. A partire dallo scandalo della clinica Santa Rita, che rappresenta senza dubbio il più grave episodio di fallimento criminale di un’organizzazione sanitaria italiana. Oppure, passando al piano delle inefficienze e degli sprechi, andiamo a vedere quanto segnalato dagli ispettori del Ministro dell’Economia nel loro sconcertante rapporto sulla gestione del Niguarda, sempre a Milano. Ma, al di là di questi casi specifici, in generale si fa così: a parità di scandalo, lo scandalo al Nord resta confinato nelle pagine della cronaca locale, quello al Sud diventa denuncia urlata dalla stampa nazionale, a riprova del fatto che il Sud e la sua sanità sono irriformabili. Un luogo comune, certo. Ma anche un’opzione politica maligna, per impedire che le forze riformatrici presenti al Sud proseguano sulla strada del cambiamento.

D’accordo. È però indubbia l’arretratezza della sanità meridionale e la sua distanza dagli indici diperformance del resto del Paese.

E come potrebbe essere altrimenti quando, da quasi vent’anni, la sanità del Sud è penalizzata in sede di riparto del fondo sanitario nazionale? E questo, eravamo a metà anni ’90, avviene da quando è passata la logica delle quote capitarie “pesate” per età che hanno strangolato l’economia delle Asl e degli ospedali meridionali. Una logica ferrea, apparentemente inoppugnabile, e basata sulla tesi che un anziano costi molto di più di un adulto o di un giovane. Peccato che le ricerche epidemiologiche abbiano smentito da tempo questo assunto. La società e i suoi stili di vita si stanno adeguando in fretta all’invecchiamento della popolazione. Oggi non è l’anziano a costare di più. Sono la povertà e il disagio sociale, a prescindere dalla fasce d’età, a rappresentare la vera emergenza dei costi sanitari.

E allora, prima di parlare di confronti e costi standard, che su queste vecchie basi penalizzeranno sempre il Sud negandogli qualsiasi possibilità di crescita, dobbiamo mettere i sistemi sanitari regionali nelle condizioni di ripartire sullo stesso piano e dagli stessi standard di offerta e di capacità di risposta assistenziale del settentrione, prima di parlare di competizione nell’efficienza e nella qualità. Fino ad oggi, invece, il Nord più dotato e più strutturato, ha sempre avuto di più. Noi, meno dotati e meno strutturati, sempre di meno. E questo ci ha negato la possibilità di poter anche solo aspirare al raggiungimento di livelli di risposta sanitaria paragonabili alle Regioni settentrionali.

Altra questione. Il ruolo della politica nelle nomine dei dirigenti delle Asl. Lei ha voluto una legge ad hoc per cambiare i criteri di selezione dei manager. E gli altri?

Lo stesso presidente Fini, in occasione delle ultime elezioni regionali, aveva lanciato proposte interessanti per far sì che la politica definisse dei criteri trasparenti nella selezione dei manager della sanità. C’è stato un bel dibattito, che mi ha ulteriormente convinto sulla necessità di creare un percorso diverso nella nomina dei direttori generali. Ma poi, finite le elezioni, tutto come prima. Lottizzazione politica senza criteri. Quasi ovunque. In Puglia abbiamo provato a mantenere quegli impegni e abbiamo, gli unici, fatto una legge che prevede un percorso preciso di selezione e formazione dei candidati affidato ad esperti esterni, per favorire una valutazione finale basata realmente sul merito e le capacità dei futuri manager. Pensa che ci abbiamo seguito o quantomeno lodato per questo? Al contrario. Il Consiglio dei Ministri non ha trovato di meglio che impugnare la nostra legge davanti alla Consulta e il ministro Fazio, in privato nostro fan, si è presto assimilato al suo Governo nelle critiche, dimostrando di non essere certamente un cuor di leone. E le altre Regioni? Nulla. Questa scelta, in ogni caso, non l’ho fatta in nome di un astratto concetto di estraneazione della politica dalle proprie responsabilità. Ma per mettere i miei manager nella condizione intellettuale e contestuale di poter essere in grado di essere realmente autonomi dalle intromissioni indebite della politica nella gestione delle loro aziende.

Ma quelle di cui parliamo, si possono realmente definire aziende o siamo di fronte ancora oggi a una mera articolazione funzionale della politica che continua a gestire e controllare tutta la sanità?

{affiliatetextads 4,,_plugin}Non c’è dubbio che la sanità sia un magma, dove la cultura del management è una pura evocazione retorica. Detto questo, pensa che la politica sappia come e per cosa si spende nella gestione dei suoi servizi? Ma se non lo sa nemmeno il direttore generale! La sanità è come una matrioska, c’è sempre un livello inferiore, una bambolina più piccola da scoprire all’interno e devi arrivare all’ultima bambolina per capire chi ha fatto cosa, soprattutto dal punto di vista delle dinamiche della spesa. E in questa frantumazione è facile veder navigare i pirati. Il tema generale, il vero obiettivo che ci siamo posti, e di cui la legge per i direttori generali è un tassello ma non certo il tutto, è quello di accorpare (e noi abbiamo ridotto da 12 a 6 le Asl, altro che lottizzazione). Di fare emergere le contraddizioni e le inefficienze. Di controllare e indirizzare la spesa. E tutto questo significa lottare contro incrostazioni di potere ben radicate. Andare contro tutto. Anche e proprio contro la ramificazione della politica all’interno della macchina sanitaria. Per farlo abbiamo puntato alla testa. Ai manager. Mettendo la politica, noi stessi quindi, nella condizione di scegliere tra professionisti selezionati da altri, formati da altri, realmente capaci, domani, di buttare fuori dalle loro stanze e dai loro uffici la politica. Ma tutto questo non si fa in un solo giorno. Mi creda. E occorre anche rivedere la grande questione della domanda di salute. Potremmo dire che la domanda non è più quella di un tempo, parafrasando Simone Signoret. E non possiamo far finta di nulla.

E voi cosa state facendo in proposito?

Intanto, al primo posto del nostro Piano sanitario, abbiamo indicato la medicina di genere. Che non è un’opzione ideologica, come pensa qualche cretino, ma è il prendere atto di come, per fare solo un esempio, donne e uomini reagiscano in modo diverso allo stesso farmaco. Questo vuol dire partire dalla domanda. Dalla domanda di salute di oggi e dai bisogni di assistenza di oggi. Domanda e bisogni che mutano e che richiedono approcci e metodi diversi. Per le donne, per l’infanzia, per le fragilità sociali e sanitarie, per gli anziani. In questo processo anche la medicina e la comunità scientifica debbono fare la loro parte. Serve un balzo in avanti, un’apertura della mentalità clinica, ormai troppo chiusa nelle sue specializzazioni che portano spesso a cesure aprioristiche, anche in quei casi dove si manifestano spiragli nuovi, visioni diverse e interessanti per un diverso approccio terapeutico. Prendiamo il caso del professor Paolo Zamboni. Il chirurgo vascolare di Ferrara, ricercatore di fama indiscussa, che sembra aver individuato una via alternativa per la cura della sclerosi multipla partendo da una visione diversa e olistica del malato, cercando di andare oltre i confini di una diagnosi e di una terapia fossilizzate in una specializzazione a senso unico. Mi lascia molto perplesso l’ostracismo della scienza ufficiale su questo caso. Non vorrei che dietro si celino interessi poco trasparenti, farmaceutici o di altra natura. Vorrei invece che la comunità scientifica aprisse un confronto serio, sereno, nel nome di una possibilità di cura potenzialmente importante per moltissime persone.

Anche questo vuol dire guardare ai nuovi bisogni, in una chiave diversa, ponendo realmente al centro del nostro lavoro la persona, nella sua interezza. Con coraggio e capacità di guardare oltre. La medicina deve smettere la sua rappresentazione salvifica-spirituale oggi rappresentata dall’esasperazione specialistica e riapprendere la visione d’insieme della persona e dei suoi bisogni.

Nuovi bisogni, nuova domanda di salute, investimenti, rilancio. Tutte azioni in avanti. Come si concilia tutto ciò con la logica dei piani di rientro basata essenzialmente sull’obiettivo del pareggio di bilancio?

I piani di rientro sono una follia. Non solo perché, in nome della razionalizzazione della spesa, producono nell’immediato il taglio dei servizi e il razionamento dei diritti dei cittadini senza alcuna possibilità contestuale di riqualificazione. Ma anche perché, sui tempi medio lunghi, diventano causa di una duplicazione della spesa sanitaria. E questo in un clima di grande ipocrisia, favorito dall’ideologia della sopravvivenza dei conti pubblici che ispira l’ultima versione del tremontismo. Faccio l’esempio del Molise. Dopo il piano di rientro, nel giro di un solo anno, questa Regione ha visto diventare una voragine il suo debito consolidato a causa della moltiplicazione della sua mobilità passiva, con l’implosione dell’emigrazione sanitaria dei suoi cittadini verso altre regioni. Se mi blocchi gli investimenti per l’edilizia sanitaria, se mi blocchi il turn over, il mio sistema entra in corto circuito. Altro che risanamento.

I piani di rientro, il riparto e in generale le logiche politiche di gestione della sanità regionale si confrontano ora con la sfida del federalismo. Ma il fronte regionale è spaccato. Una frattura insanabile che potrà avere ripercussioni anche a livello nazionale?

Partiamo dall’intesa Stato-Regioni del 16 dicembre scorso sul federalismo fiscale e i costi standard sanitari. Quell’intesa è stata fatta con la pistola puntata alla tempia. Da una parte l’alternativa del no, che in ogni caso non avrebbe stoppato l’iniziativa governativa. Dall’altra parte dire di sì, per ottenere la restituzione delle risorse scippate dal Governo alle Regioni, a partire da quelle per il trasporto pubblico. Una non partita dove, tra l’altro, abbiamo avuto un Nord con una palese convenienza all’accordo e un Sud sotto il ricatto di una negoziazione continua con il Governo per piani di rientro e quant’altro. A un certo punto sembrava che solo la Puglia si opponesse alla firma dell’intesa.

E quindi?

E quindi oggi abbiamo la prospettiva di un qualcosa che chiamiamo federalismo e che in realtà è una schifezza. Dove federalismo diventa il nome presentabile della secessione e di un processo di fuoriuscita dalla solidarietà nazionale. Io non sono contro il federalismo, anzi. Ma ciò di cui stiamo parlando è una sceneggiata. Una cosa, si dice, che fa bene al Nord, fa bene al Sud. Un processo che non penalizza nessuno e fa tutti più ricchi. Ma la presa in giro si smaschera facilmente anche solo riflettendo sulla deroga ottenuta dalle Regioni a statuto speciale. Ma in un assetto federalista non dovremmo essere tutte Regioni a statuto speciale? In realtà ci stanno vendendo qualcosa che, come dice un vecchio detto contadino, ci vogliono far credere sia “tutto prosciutto”. Il federalismo sul quale vorrei discutere è ben altro. Un patto che tenga insieme il Paese e non lo divida ulteriormente.

Eppure un fronte del Sud esiste. E si sta facendo sentire nella battaglia con il Governo sui criteri di riparto del fondo. La contrapposizione si allargherà anche al federalismo?

{affiliatetextads 4,,_plugin}È vero. Sul riparto ci stiamo giocando molto, come ho già detto. Ma la partita è più ampia e spero che i miei colleghi non tradiscano i loro territori per ragioni di opportunismo di corto respiro o peggio per sudditanza politica. A loro dico: ma si può partire con una riforma federalista che pone come prima tappa il fisco? E questo dopo anni di politiche demagogiche e scellerate della destra. Con una rappresentazione della fiscalità e della solidarietà fiscale quali esercizi vessatori e paracriminali dello Stato, negandone quindi la loro natura di strumenti fondanti di una comunità sociale democratica e civile. E ancora, ci vogliamo ricordare della progressiva decurtazione dei trasferimenti dal centro al Sud, ormai vicini alla soglia di un misero 35% sul totale dei trasferimenti, quando gli impegni passati parlavano di un obiettivo del 46%? Per non parlare dello scippo costante dei fondi Fas e degli altri fondi europei, che ormai sono usati come cassa per far fronte a qualsiasi cosa tranne che per le esigenze del Sud al quale sono destinati. Ebbene, se i miei colleghi non dovessero tener conto di tutti questi fattori, non potrei che trarre la conclusione della loro complicità nella più grande rapina che la storia italiana abbia mai visto a danno dei cittadini delle regioni meridionali.

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