Il Sud contro Lombroso:"Chiudete il suo museo simbolo del razzismo"
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Altro che celebrazioni dell’Unità; con queste convinzioni quelli della «rete Sud», associazione campana che coordina vari comitati e gruppi sparsi nel Meridione, hanno deciso di marciare su Torino. Manifesteranno sabato davanti al museo, e domani al forte di Fenestrelle, in Val Chisone, per ricordare i 40 mila soldati borbonici là reclusi dopo la «conquista del Sud» e «in gran parte sterminati».
«Non si sa quanti ne siano morti, perché i loro corpi venivano sciolti nella calce», spiega Francesco Laricchia, coordinatore della Rete Sud. Le risposte del professor Silvio Montaldo, direttore del museo, non arginano la sua indignazione. Inutile dirgli che dei 904 reperti, soprattutto crani, almeno 800 non sono identificabili, perché appartenevano a defunti sconosciuti; che per altri è rimasto solo un nome e cognome e, a cercar bene, due o tre recano la scritta «Calabria», dove il fondatore della criminologia era stato col suo reggimento.
Il professor Montaldo lo ha spiegato persino al prefetto di Torino, dopo proteste «borboniche» arrivate al Capo dello Stato, scrivendo che «non è un museo celebrativo ma storico e critico su un personaggio e su un’epoca. E’ una istituzione scientifica, che non nasconde nulla».
{affiliatetextads 1,,_plugin}Discorso chiuso? No. Si può spiegare quanto si vuole, ma il problema è un altro: per una - non sappiamo quanto vasta - corrente d’opinione, il museo è ormai un simbolo. «Gente nostra è stata al Lombroso e ha visto tutto, senza ottenere spiegazioni», tuona Laricchia. Il suo atto d’accusa si estende alla storiografia sul Risorgimento - corpus monumentale - che avrebbe oscurato le efferatezze di una guerra di rapina contro un Regno prospero e avanzatissimo. I libri che dicono la verità sono «tenuti nascosti», insieme ai documenti: «Dopo 150 anni vige ancora il segreto militare sugli atti della conquista del Sud». Sarà vero?
Assolutamente no, rispondono gli storici. Come osserva Roberto Galasso, la grande tradizione, da Croce a Venturi, da Chabod a Salvemini, non ha taciuto nulla, anche perché gli episodi gravi, che ci furono, erano noti e clamorosi. Ma ancora una volta non basta. La «battaglia antirisorgimentale», caso tipico di mitizzazione del passato sulla base di istanze ed esigenze contemporanee, è un modo di «inventare la tradizione» non lontano da quello che ha segnato la nascita e la crescita della Lega Nord, col celtismo e il Dio Po. Si nutre di pubblicazioni dai titoli sgargianti, tipo «Carlo Alberto Sciupafemmine» o «Complotto massonico protestante contro la Chiesa», di convegni contro le «verità ufficiali» che si celebrano, per esempio, a Belgirate, di manifesti contro le «menzogne storiche». E’ un cocktail composito: cattolici tradizionalisti, neo-borbonici e «padani» di cultura leghista, quella che fa manifestare al ministro Calderoli serie perplessità sulle celebrazioni per l’Unità d’Italia.
Quanti sono? Le associazioni del Sud parlano di qualche migliaio di persone. Ma se il mosaico è complicato, il mal di pancia è comune, così come lo è la ricerca di alleanze all’interno di questo frastagliato perimetro. Sabato a Torino, simbolo negativo per eccellenza, saranno in pochi o tanti, chissà, davanti al Museo Lombroso.
Ma hanno già individuato un alleato, da mettere magari in difficoltà: Francesco Laricchia ha scritto una lettera al governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota, chiedendogli «in nome dello spirito dell’ideologia, che spinse contadini meridionali a ribellarsi ai soprusi “unitari” e che fu antesignana dei principi che traspaiono dai programmi del Suo Movimento, perché non viene a stringerci la mano davanti al carcere (pardon: museo) lombrosiano?»
mario baudino da La Stampa