Abbiamo fatto calare una coltre di oblio sulla storia che fa dell’Italia uno dei Paesi il cui popolo ha conosciuto in prima persona l’epopea e anche le tragedie dello sradicamento delle migrazioni. Quella perdita di memoria non ci aiuta ad orientarci, oggi, di fronte alla complessità dei fenomeni e della necessità di costruire politiche di inclusione.

{affiliatetextads 1,,_plugin}Il rapporto della Caritas sui migrantes che ogni anno rappresenta l’aggiornamento preciso e documentato della situazione, dello stato dell’arte della presenza dei migranti è un quadro documentale di un fatto cancellato dalla discussione pubblica. I migranti producono ricchezza nel nostro Paese, sono grandi produttori di ricchezza e la loro presenza supplisce le tante latitanze di un welfare che ha conosciuto un forte dimagrimento.

Se per incanto le badanti, a cui un milione e mezzo di famiglie italiane danno le chiavi di casa e affidano la cura dei propri cari più fragili, sparissero come neve al sole l’Italia si ritroverebbe in ginocchio e il nostro sistema di assistenza e di cura verrebbe travolto da una domanda priva di rete di protezione per tante persone. Se interi apparati produttivi non potessero più fruire delle prestazioni di manodopera migrante noi avremmo davvero una situazione critica, drammatica.

Vi riporto questi dati non perché siano osservazioni che appartengono al mio repertorio culturale e morale, ma come indicazioni di un quadro legato al principio di realtà.

Io sono di altri convincimenti: penso che il convincimento per il quale valga la pena battersi sia l’idea che ogni essere umano ha il diritto di andare dove vuole e che è impensabile che, entrati in questo evo della modernità, della globalizzazione, del diritto universale delle merci e del denaro a poter superare qualunque dogana e a transitare ovunque, questo diritto non valga per gli esseri umani.

Inoltre osservo che in tutte le tradizioni e in tutti i documenti più antichi della presenza di insediamenti umani, in tutte le civiltà dei periodi più antichi della storia dell’umanità, l’accoglienza del forestiero in pericolo di vita era un tratto fondante del livello di civiltà. Noi talvolta, invece, ci sentiamo come risucchiati in una specie di regresso ancestrale. Non si tratta di spartire miseria tra poveri indigeni e poveri stranieri, perché se fosse così ci troveremmo di fronte a uno stereotipo, a una litania che torna permanentemente.

Quando si parla del lavoro si comincia a dire che se non c’è per gli italiani è impensabile che possa esserci per gli stranieri, che se non c’è per gli uomini è impensabile che possa esserci per le donne, che se non c’è per i padani è impensabile che possa esserci per i terroni.

Il principio della disarticolazione della forza lavoro serve semplicemente a tenere sotto ricatto eserciti di riserva per le grandi opere di ristrutturazione internazionale del mercato del lavoro.

A tal proposito, penso che valga la pena immaginare che il problema sia quello di unificare il fronte di coloro che chiedono lavoro e sapere che i poveri – chiamiamoli così – non rappresentano il problema. La povertà è il problema e, dal mio punto di vista, i poveri sono la risorsa.

Siamo tutti bravissimi quando parliamo delle radici cristiane dell’Europa, del Continente: io pensavo che le radici cristiane si trovassero nella frase iniziale di Gesù di Nazareth ‘ero straniero e mi avete accolto’. Pensavo si trovassero lì e nel fatto che non si può spartire il pane della dignità se non riconoscendo a ciascuno il diritto di sosta, il diritto di alloggio, il diritto di vita, il diritto di lavoro, il diritto di accoglienza.

Noi che cosa facciamo? Non facciamo una grandissima rivoluzione: semplicemente, con questa legge, cambiamo lo sguardo e invece di dire che l’immigrazione è un problema a cui dobbiamo rispondere in termini repressivi diciamo che l’immigrazione è una risorsa che noi intendiamo accogliere.

La Caritas sostiene – non lo sostengo io che, come sapete, posso essere non credibile – che l’Italia su cinque euro spesi per l’immigrazione quattro li spende per la repressione e uno lo spende per le politiche di inclusione. La Caritas sostiene, inoltre, che sarebbe opportuno capovolgere la proporzione.

Quella ad immaginare i poveri come criminali e a criminalizzare la povertà è una tendenza ritornante nella storia d’Europa, anzi nella storia del mondo. Vi ricordo che, ad esempio, nel Medioevo nel nord Europa si istituirono nuove figure di reato: il reato di accattonaggio, il reato di vagabondaggio, il reato di indigenza. Si trattava di reati puniti con la pena di morte, con le torture, con la pubblica afflizione corporale e che intendevano dimostrare che la ricchezza è la testimonianza di una benedizione divina, mentre la povertà è una colpa che va espiata.

Queste tendenze potrebbero tornare nell’epoca moderna, ma noi dovremmo solo vergognarci di quello che ha detto l’Unicef e cioè che, a fronte di tutte le dichiarazioni dei potenti del mondo, in questi ultimi due anni sono aumentati coloro che muoiono di fame, che non hanno accesso all’acqua potabile, che non hanno accesso alle cure.

Anche la vita di una sola persona e il suo giocare dentro le relazioni sociali merita l’intervento dei pubblici poteri, a partire dalla dichiarazione dei princìpi che si intende seguire. Per me l’inviolabilità della vita di chiunque, la sua indisponibilità a non essere trasformato in un gioco per i dadi del mercato della globalizzazione è un punto di partenza troppo importante.

Secondo me questa legge rappresenta una delle pagine più belle scritte da questa Regione”.

Con l’augurio di buon lavoro porgo a voi tutti i miei più affettuosi saluti.

* Presidente Regione Puglia