Niente confronto. Niente primarie. Solo caccia ad alleanze per il potere. L'ex ministro boccia Bersani. E accusa D'Alema. Colloquio con Arturo Parisi
- Dettagli
- Categoria: Attualità Regionale e Nazionale
- Visite: 1805
Proprio lei, l'inventore delle primarie, rimpiange le liturgie di partito?
«Di quei partiti ho molto rispetto ma nessuna nostalgia. Ma del confronto politico, sì, del valore che veniva dato alle parole, del senso storico delle scelte, talvolta prossimo al dramma, ma sempre comunque lontano dalla farsa».
Qual è la farsa in cui rischia di scivolare il Pd?
«Ripetere che al congresso ha vinto una linea e che quindi non va rimessa in discussione. Peccato che nessuno abbia avuto il coraggio di esplicitarla né prima né dopo, anche se intanto una linea veniva evocata in sottofondo, chiarissima».
Quale?
«Quella di Massimo D'Alema. È da mesi che mi aggrappo a una domanda: tutti sappiamo che D'Alema appoggia Bersani. Ma mi può dire Bersani se appoggia la linea di D'Alema?»
Come le ha risposto il segretario?
«Prima del voto con il silenzio. Dopo il voto con le parole di D'Alema. Come temevo, vedo D'Alema illustrare la sua linea a reti unificate, quasi che il segretario fosse lui». Per citare una vecchia vignetta di Ellekappa: «D'Alema piange, dunque la linea è piangere».
Qual è la linea D'Alema, oggi?
«D'Alema parla chiaro, fin troppo: restituire ai partiti il loro ruolo centrale. Tornare alla democrazia della delega contrastando ogni tentazione di democrazia diretta dei cittadini. Abbandonare ogni illusione sulla preminenza del progetto e ridare forza ai soggetti, cioè ai partiti e ai capipartito, affidandosi alla loro saggezza e professionalità. Il ribaltamento del cammino di questi anni. Il peggio è che a parole si pretende di continuare a professare anche l'opposto. Le primarie, si dice, sono nel Dna del Pd, ma se poi si possono evitare, meglio. Oppure i governi debbono fondarsi sul voto degli elettori, ma se poi si può evitare di scomodarli, come in Sicilia, ancora meglio...».
«In Sicilia non si capisce se siamo noi che li aiutiamo a governare, o loro che dovrebbero aiutarci a batterli. La Puglia, più che un laboratorio, rischia di diventare un modello per il Paese. La sola idea che la Poli Bortone possa guidare contro di noi la coalizione berlusconiana, dopo esserci stata proposta poco tempo fa come determinante per un'alleanza per il Sud, primo passo verso il fronte anti-berlusconiano lanciato da Casini, dice da sola dove conduce la politica del potere per il potere».
In che direzione?
«Al trionfo del trasformismo. Dopo mesi nei quali abbiamo cantato l'assoluta priorità del programma, sento ora il nostro Letta intonare il canto della priorità delle alleanze, ossia che l'unica cosa che conta è la vittoria. E questo nella regione di Tarantini e della D'Addario, della estesa commistione tra affari e sanità, senza che si capisca più quale sia la differenza tra destra e sinistra. Solo l'assoluto disinteresse per la Repubblica può spiegare perché si parta dalle alleanze e non dal cosa fare con gli alleati. Non so se continuando così perderemo. La mia paura è invece che ci perderemmo, anzi, che ci siamo già persi».
Anche l'Unione di Prodi andava da Bertinotti a Mastella. Che c'è di male ad allearsi con l'Udc?
«Nulla. Perché non dovrei confrontarmi con Casini, la cui qualità è assolutamente comparabile, e a volte superiore, a quella di molti miei compagni di partito? Il tema non è con chi, ma è su che cosa confrontarsi, e soprattutto perché incontrarsi».
Per alcuni dirigenti del Pd il modello Parisi ha consegnato l'Italia ai partiti personali, al berlusconismo...
«Quello che chiamano il mio modello è la democrazia maggioritaria, la democrazia chiesta coralmente dai cittadini in due referendum. Ed è quello che ha consentito al centrosinistra di vincere due volte le elezioni. Se in quel modello Berlusconi ha vinto è perché ha messo in campo un progetto nuovo con un soggetto nuovo. Noi invece abbiamo spesso detto di giorno cose che abbiamo contraddetto di notte».
«Vuole cambiare il modello? Bene. Abbia il coraggio di dirlo con chiarezza: "Tredici anni fa a Gargonza, ho cercato di spiegarvelo con gentilezza. Visto che non capite, ve lo dico ora come meritate. Le primarie, il maggioritario, la democrazia dei cittadini? Sono tutte boiate". La ricreazione è finita».
Il suo è lo sfogo di un politologo, replicherebbe lui, ora deve tornare la politica...
«Ma la crisi della politica è prima di tutto crisi dei politici. La realtà è che nemmeno D'Alema pretende più di parlare a nome di un'aristocrazia, ma solo come espressione al più di una corporazione. Le virtù che mette in campo non sono le grandi virtù dei tempi delle grandi scelte, ma le piccole virtù dei professionisti del "se po' fa", dei politici che sanno con chi e come si può trattare su ogni cosa, quelli che ricalcano il proprio profilo su quello di Andreotti. Ma Andreotti ha elaborato il suo realismo per conservare un potere che deteneva. Qui si pretende invece di imitarlo per conquistare un potere che non abbiamo».
In caso di sconfitta alle regionali torna in pericolo la vita del Pd?
«Vinca o non vinca questo Pd a rischio lo è già. Se nella stagione rosa dell'idealismo il rischio fu la retorica e la propaganda, la delega ai professionisti rischia ora di portarci sulla scia del loro realismo al cinismo di massa, al trasformismo. Come il clericalismo per la religione, è il politicismo che affossa la politica, che è progetto, mobilitazione delle coscienze, orientamento delle passioni».
{affiliatetextads 1,,_plugin}Ecco Parisi, la solita Cassandra...
«Io sento il peso di giornate che si consumano nella menzogna. L'anno appena finito è stato segnato come mai dalla resa. La resa all'omologazione: tutti sono uguali. La resa all'idea che il Sud è il Sud ed è meglio farsene una ragione, che l'Italia è l'Italia e di più non può dare. E alle spalle non abbiamo più, come ai tempi dell'Ulivo, una società in crescita che sentiva la "Canzone popolare", come il canto di una marcia contro il blocco della vecchia politica. Oggi non dobbiamo solo liberare la società dal blocco della politica, e non basta neppure rimuovere Berlusconi. La crisi è di una società più povera non solo sul piano economico, ma culturale, civile, morale. Nel pieno della sua crisi, perfino privata, Berlusconi ha disvelato la crisi che coinvolge tutti. E noi del Pd pensiamo davvero che una cooperativa di professionisti, validata da una delega per di più neppure esplicita, sia in grado di affrontare questa tempesta?».
Già: cosa può fare un povero segretario di partito, Bersani, in queste condizioni?
«Bersani deve farsi carico per primo di questa domanda. Ora non è più quel saggio ministro che ha dimostrato di essere, è il capo politico del partito. Apra lui ora quel congresso che non c'è mai stato. Ha la piena responsabilità e tutte le capacità per essere quel che è richiesto a un segretario. Le primarie non lo hanno chiamato ad essere nel Pd quel che Cesa è nell'Udc...».
Scommette ancora su questo Pd?
«Un partito è una comunità di persone. Se avremo finalmente il coraggio di aprire un confronto vero, riconoscendo che il partito nuovo che avevamo annunciato non è ancora nato, sapremo ritrovare i sentimenti e le parole che ci hanno scaldato i cuori».
(C) L'Espresso