Marpiccolo piace alla critica
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{affiliatetextads 1,,_plugin}e chi invece lamenta un eccesso di violenza e una raffigurazione troppo degradata del quartiere Paolo VI. La critica rimarca soprattutto il primo aspetto, la capacità di tratteggiare un quadro sociale drammatico ma veritiero: su Repubblica, per esempio, Paolo D'Agostini affianca “Marpiccolo” “ai modelli estetico-ideologici degli anni duri del dopoguerra”, citando in particolare il “melodramma sociale di Giuseppe De Santis” e l'Elia Kazan di “Fronte del porto”, piuttosto che i “molti esempi recenti di cinema civile. (…) C'è un cuore antico, o classico, nel film di Di Rob il an t ”, sottolinea D'Agostini, “nella sua Taranto avvelenata dall'Ilva si muovono personaggi ben profilati, ciascuno con il proprio destino (…), un coro nel quale i maschi sono negativi e le donne trasmettono invece coraggio”.
E se sul mensile Ciak Stefano Lusardi dice che il film affronta “un tema 'necessario', ma forse un po' abusato”, sottolineando la “regia ruvida ed efficace” di Alessandro di Robilant “s o st enuta da una sceneggiatura solida e un gruppo di attori convincenti ”, Simone Emiliani, sul webmagazine
Sentieri Selvaggi , si sofferma proprio sul rilievo particolare che lo spazio sociale tarantino assume nel film: “Di Robilant disegna efficacemente il quadro di un degrado soprattutto familiare, senza sconti. (…) Appare un set impermeabile, quello di 'Marpiccolo'. Uno spazio predestinato da cui è impossibile fuggire”, sottolinea Emiliani, aggiungendo che “è proprio nell'aspirazione a una rottura col proprio passato (e quindi con la propria famiglia) da parte di Tiziano o anche nella sconfortata rassegnazione di non farcela che sta il cuore di un film anche malato, ma anche così prepotentemente diretto nella sua sincerità”. L'impressione della circolarità del film, della chiusura in un circolo vizioso della parabola umana del giovane protagonista, è un dato che viene sottolineato anche da Stefano Cocci sul portale MyMovies: “La lunga
carrellata con cui Di Robilant apre 'Marpiccolo', apre e chiude un mondo: Taranto e il suo entroterra è stato violentato al pari del mare che la fronteggia, stantio e soffocato dai veleni dell'industria”.
Impressionato dal valore dei fumi dell'Ilva nello scenario jonico, il critico sottolinea infatti come l'occhio del regista entri “nella realtà di uno dei quartieri più degradati della città” mostrandoci “il realismo di un mondo disperato che conosciamo bene, di cui sappiamo già l'epilogo”. Per Stefano Cocci “M ar pic col o” ci introduce in una vera e propria “Gomorra tarantina”, facendoci scoprire “che le cronache disperate di cui rigurgitano ogni giorno giornali e tv del Belpaese possono essere raccontate con una nuova forza, cercando di lasciare una crepa nel muro di gomma e dare uno schiaffo al potere che vive sulla disperazione”. Di “un mondo nel mondo” parla Dario Zonta sull'Unità a proposito del quartiere Paolo VI, sottolineando la differenza tra la Puglia al cinema raccontata dal “realismo grottesco dei fratelli Piva ('La Capagira')” e dal “realismo magico di Edoardo Winspeare ('Il Miracolo')”, rispetto a “M ar pi c co lo ”, dove “Alessandro Di Robilant è alla ricerca di un'alterità ancor più realistica, e per questo quasi irreale”.
Di “film schietto, appassionato, pieno di ingenuità e di sottolineature, coinvolgente ed emozionante come capita di rado nel nostro cinema perbenista e predicatorio” parla Fabio Ferzetti nella sua recensione sul Messaggero. E se su La Stampa Alessandra Levantesi scrive di un film “a volte troppo didascalico, (…) tuttavia felice nel disegnare Tiziano e i suoi rapporti con la trepida madre”, Maurizio Porro sul Corriere della Sera parla di un film “figlio di 'Gomorra', (…) incisivo nel descrivere una vita obbligatoria violenta, (che) trova un vero jolly in Giulio Beranek, giostraio prodigio”.
((Ms. C.)) - (C) Corriere del Giorno