L'oro blu della Puglia (Quali interessi dietro la guerra a Nichi Vendola?)
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La storia che segue è la risposta a questa domanda. Se si tratta di fantapolitica o di gigantesche microscopiche realtà non sarà il sottoscritto a dirlo. Tutto ha inizio 13 anni fa, nel settembre del 1996, quando Antonio Di Pietro, allora ministro dei Lavori Pubblici, redige la prima bozza di decreto che ordina la privatizzazione dell’acquedotto pugliese. Una privatizzazione che, nel corso degli anni, non è mai praticamente avvenuta. Così nasce questa storia, con l’attuale ferreo sostenitore del principio "acqua bene pubblico" primo ideatore della sua privatizzazione. Un ruolo, questo del privatizzatore dell’oro blu, che è utile tenere bene a mente. Per un intero anno, dal 2000 al 2001, i governi D’alema e Amato tentano un accordo di vendita della Acquedotto Pugliese SpA (allora nelle mani del Tesoro) all’Enel, un accordo che fallirà miseramente per l’ostruzione continua operata dal Presidente pugliese Raffaele Fitto, che, nel tentativo di incrementare la posizione della Regione Puglia nel futuro asset societario della SpA, finirà per distruggere l’unica possibilità di privatizzazione dell’acquedotto regionale. Un involontario eroe socialista in salsa pugliese.
{affiliatetextads 1,,_plugin}Nel dicembre 2001 il nuovo governo Berlusconi consegna l’acquedotto pugliese nelle mani di Fitto, alla sola condizione di procedere regionalmente alla privatizzazione entro 6 mesi. Numerosi gli interessati. Tra tutti una cordata dall’enorme potenziale: ACEA (società municipalizzata di Roma controllata dall’allora sindaco Walter Veltroni), Roberto Colaninno (futuro anello di congiunzione tra PD e PDL) e Francesco Caltagirone (capo di un impero che va dall’editoria all’edilizia, dalle banche ai trasporti), una cordata ben vista e sostenuta da D’Alema e Letta da una parte (un binomio che ritroviamo ancora oggi nell’endorsement a Pierluigi Bersani) e da Alemanno dall’altra. La privatizzazione si fa attendere e la duratura attesa esporrà Fitto e la sua regione a numerose critiche del centrosinistra, in un gioco della parti completamente rovesciato: con l’Ulivo e Di Pietro "convinti privatizzatori" da una parte e la destra "anomala statalista" dall’altra.
Tra i più convinti privatizzatori il lettiano Francesco Boccia e il dalemiano Sandro Frisullo. Ogni ipotesi di privatizzazione fallisce miseramente nel gennaio 2005 quando le primarie del centrosinistra vengono vinte inaspettatamente dal "rivoluzionario gentile" Nichi Vendola, proprio a danno di Boccia, fervido sostenitore della "bozza di privatizzazione D’Alema" del 2000. La vittoria nelle regionali contro il governatore uscente Fitto metterà per sempre la parola fine ad ogni velleità liberista, vista la profonda convinzione del neo-eletto Vendola a mantenere la gestione dell’acqua pugliese nelle mani della collettività. L’evidente acredine preesistente tra Ulivo e Vendola cresce sempre più durante il governo di quest’ultimo, impegnato a nominare ai vertici dell’AQP amministratori contrari ad ogni privatizzazione (Petrella prima e Monteforte poi) e ad ostruire ogni interesse gestionale del duo DS-Margherita.
Nel luglio 2008 le prime dichiarazioni di reciproco interesse in Puglia tra PD e UDC. La condizione una sola: l’allontamento definitivo di Nichi Vendola e dei partiti della "sinistra" (Italia dei Valori, Rifondazione e Sinistra e Libertà).
La china presa da Vendola diventa preoccupante. A febbraio, lo scandalo che colpisce l’assessore Tedesco, socialista dalemiano, allontanato dalla giunta Vendola prima dell’avviso di garanzia, immediatamente riciclato in Senato al posto del prodiano De Castro, dirottato in Europa, su "richiesta" di D’Alema ed avallo di Franceschini. Lo scontro tra Vendola e D’Alema diventa pubblico e sfocia nelle critiche dell’ex segretario PDS al leader di Sinistra e Libertà per la candidatura di bandiera alle europee, che D’Alema e Latorre contesteranno profondamente ("Mi auguro che abbia considerato e soppesato le conseguenze politiche che la sua scelta di candidarsi alle europee potrebbe avere" fu la dichiarazione molto esplicita del secondo).
E poi, nel luglio scorso, l’indagine della DDA barese capitanata dal PM Digeronimo sulla giunta regionale e la cacciata di 5 esponenti, tra cui ben 3 dalemiani. Uno schiaffo al leader-massimo che se compiuto dall’esponente di un partitino come Sinistra e Libertà può significare una cosa sola: abiura o morte. Inizia così l’attacco da più fronti a Vendola, alla sua giunta e al suo sponsor, l’ex dalemiano ed ora scheggia impazzita Michele Emiliano, sindaco di Bari. Gli attacchi vedono i dalemiani colpiti nel cuore da un lato e dalla parte opposta l’Italia dei Valori alla ricerca di un’altra leadership "più opportuna". Un gioco di potere, quello del leader morale dei DS, che salta agli occhi anche dell’attento Giannini, su Repubblica, che parla di "Patto della crostata in casa ACEA" (1). Un patto che sembra riaprire l’ipotesi della privatizzazione, con un solo prezzo da pagare: l’allontanamento dei sostenitori della gestione pubblica.
Un gioco di potere ancora meglio calibrato se a lanciare l’attacco contribuisce anche "Il riformista", vicino alla corrente di D’Alema e di proprietà della famiglia Angelucci, indagata (nelle persone di Antonio, deputato PDL, e Giampaolo) assieme a Raffaele Fitto per lo scandalo della sanità pugliese. Una storia che sembra consegnare il corpo morente del governatore Vendola sull’altare del patto PD-UDC. Il "patto della crostata". Sancito con l’entrata in ACEA del consigliere dalemiano Andrea Peruzy al posto del prescelto dal PD romano Angelo Rughetti, un ingresso che conferma l’ottimo rapporto tra D’Alema e Caltagirone (suocero di Pierferdinando Casini), che affonda le radici negli interessi comuni su Monte dei Paschi di Siena, scalata BNL e, adesso, ACEA, come conferma lo stesso Marco Palombo (PD) dalle pagine del Foglio (2).
Un patto però, questo tra D’Alema e Casini, insufficiente, elettoralmente e numericamente parlando. Serve almeno un altro alleato, anche non fidato, ma in grado di apportare un certo contributo per la vittoria. E chi meglio di un Di Pietro e un IDV così critici verso Vendola? Ma come fare? Semplicemente lasciando che gli eventi corrano da sé. E lasciare che a mezzo stampa trapeli il recondito interesse dell’IDV nella candidatura di un certo Francesco Boccia, lo stesso che negli anni (forse all’insaputa di un distratto Di Pietro) si è fatto portavoce dell’istanza privatizzatrice per nome del duo Letta-D’Alema.
Lo stesso che negli ultimi anni ha ribadito la fedeltà al progetto di privatizzazione targato D’Alema e che ora vede Caltagirone, Colaninno, l’ACEA di Alemanno e la Mediobanca di Geronzi al posto dell’ENEL.
Quel progetto nato dall’ex ministro Antonio Di Pietro.
Un cerchio che si chiude
da: http://www.agoravox.it/L-o
articoli citati:
1) QUEL PATTO DELLA CROSTATA IN CASA ACEA
Repubblica — 12 maggio 2009 pagina 7 sezione: ROMA
DA PUBLIC utility corteggiata dai colossi globali a «laboratorio» dei nuovi equilibri politici locali. In pochi mesi l' Acea ha subito una radicale metamorfosi. Dopo il ribaltone al Campidoglio, l' azzeramento dei vertici voluto dal sindaco Alemanno, l' arrivo di un manager casiniano come Marco Staderini, la fuga in avanti e la retromarcia innestata coni soci francesi di SuezGdf, adesso in azienda si celebra uno strano «patto della crostata». E stavolta non in casa Letta, ma semmai in casa Caltagirone. Usciti dalla scena del cda anche l' ultimo dei mohicani Piero Giarda e l' economista prestato alla destra Geminello Alvi, nel board si registrano due new entry a dir poco sorprendenti: oltre a Luigi Pelaggi, arriva anche Andrea Peruzy, tesoriere e direttore della Fondazione Italianieuropei. Che un uomo tanto vicino a Massimo D' Alema potesse entrare in una società ormai develtronizzata sta nella natura delle cose. Un po' meno naturale è che quell' uomo possa convivere sotto le insegne di un' azienda ormai alemannizzata. Misteri o miracoli del sotto-governo romano. È evidente che sotto l' ombra del Cupolone si vanno ridisegnando gli equilibri del potere politico ed economico. Francesco Gaetano Caltagirone è ormai dominus incontrastato della città. Con il suo 7,5% di Acea, il costruttore più liquido d' Italia ha espresso il «ceo», e ora mette insieme, seduti allo stesso tavolo, gli uomini di Alemanno, di Casini e di D' Alema. Eccoli, i nuovi Poteri Forti della città. Il business, un pezzo irrequieto ed autonomo di Pdl, i centristi dell' Udc e i riformisti del Pd. Prove tecniche di una futura maggioranza di salute pubblica e post-berlusconiana?
da:http://ricerca.repubblica.
2)Acea iacta est. Nasce la santa alleanza tra Caltagirone e D’Alemanno
I protagonisti di questa storia di potere – che nasce dietro le quinte della più importante azienda della capitale e che mette in imbarazzo il maggior partito dell’opposizione – si chiamano Gianni Alemanno, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Geronzi e Massimo D’Alema. Il primo è il sindaco di Roma, il secondo è l’imprenditore più importante della Capitale, il terzo è il numero uno di Mediobanca, il quarto è il presidente di ItalianiEuropei.
Tutto inizia la scorsa settimana e tutto gira attorno a quelle quattro lettere che a Roma significano potere economico, finanziario e soprattutto politico: Acea. Controllare l’Acea (una società che ogni anno riesce a muovere qualcosa come un miliardo e mezzo di euro per la costruzione di acquedotti, reti elettriche e depuratori) vuol dire avere il controllo della più ambita e importante centrale di potere della Capitale, e la fotografia dell’organigramma dell’Acea è da sempre uno degli strumenti più immediati per capire chi a Roma comanda e chi invece non lo fa.
E’ successo così che venerdì scorso il cda di Acea doveva nominare uno dei nuovi consiglieri di amministrazione della municipalizzata romana. Il sindaco Gianni Alemanno – che è socio forte dell’Acea grazie al 51 per cento di azioni della società presenti nella pancia finanziaria del comune – aveva deciso che uno dei consiglieri doveva essere un nome scelto dal Pd e il nome su cui la maggioranza del Pd romano aveva puntato era quello del segretario generale dell’Anci, Angelo Rughetti. Tutti erano d’accordo: era d’accordo il Pd, era d’accordo Franco Marini, era d’accordo anche il numero uno del Pd romano (Riccardo Milana). L’unico che non era d’accordo era Massimo D’Alema. Chi ha vinto? Naturalmente ha vinto il candidato di D’Alema: quell’Andrea Peruzy che, oltre a essere nuovo consigliere di Acea e oltre a essere membro del cda di Crédit Agricole, è direttore esecutivo e tesoriere di ItalianiEuropei – ovvero la fondazione di Max. Se il primo effetto politico della nomina di Peruzy è che il Partito democratico romano (su richiesta diretta di Franco Marini) presenterà in questi giorni in Consiglio comunale la sfiducia al capogruppo dalemiano del Pd (Umberto Marroni), le conseguenze del caso Acea sono anche di altro tipo e riguardano i rapporti tra politica e poteri finanziari.
In questa storia c’entra la famiglia Caltagirone e c’entra anche la Mediobanca di Cesare Geronzi. Caltagirone è l’uomo che esercita più potere all’interno dell’Acea. Il suo potere va ben al di là del 7 per cento di azioni che l’imprenditore romano controlla nella municipalizzata, dato che uomini considerati vicini a Caltagirone sono sia il presidente di Acea Giancarlo Cremonesi (già numero uno dei costruttori romani) sia l’amministratore delegato Marco Staderini (uomo di fiducia del genero di Caltagirone, Pier Ferdinando Casini). C’è chi dice che lo strapotere di Caltagirone aveva fatto innervosire a fine marzo i soci di Gaz de France (che in Acea hanno il 10 per cento) e così – anche per addolcire i rapporti con i francesi – Caltagirone e Alemanno avevano deciso di appoggiare la scelta fatta dalla municipalizzata di affidare a Mediobanca il ruolo di advisor per governare i prossimi accordi azionari con la stessa Gaz de France.
Il nome del nuovo consigliere di amministrazione di Acea, dunque, rientra proprio nell’ambito di quelle garanzie che i francesi avevano chiesto sia a Caltagirone sia a Mediobanca. Ma c’è qualcosa di più ed è qualcosa che spiega come D’Alema stia provando a poco a poco ad affondare le radici anche in quello che fino a pochi mesi fa era il regno del veltronismo. Dice al Foglio il consigliere provinciale e tesoriere del Pd, Marco Palombo. “Il caso Acea dimostra che obiettivamente tra D’Alema e Caltagirone c’è un ottimo feeling. Un feeling che parte qui da Roma e che arriva fino alla Monte Paschi di Siena di cui Caltagirone è vicepresidente. E’ chiaro che dovendo scegliere un uomo di cui fidarsi nell’opposizione, e per dare l’idea ai francesi di Gaz de France che il cda di Acea fosse diventato più equilibrato, Alemanno e Caltagirone hanno deciso di scegliere un uomo di D’Alema, non uno del Pd”.
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